Nutrizione e ovaio policistico
Il ruolo dell’alimentazione nella sindrome dell’ovaio policistico
La Sindrome dell’Ovaio Policistico (PCOS) è un disordine endocrino-metabolico che, costituisce, verosimilmente, una delle patologie endocrine più diffuse tra la
popolazione femminile. Le caratteristiche principali sono iperandrogenismo, oligo-anovularietà ed alterazioni morfologiche dell’ovaio. Secondo le ultime stime la PCOS colpisce più del 10% della popolazione femminile in età riproduttiva. L’obesità, tipicamente caratterizzata da una distribuzione dell’adipe a livello centrale (obesità androide), ha una prevalenza variabile dal 30 al 75% delle pazienti con PCOS in tutto il mondo, sebbene risulti maggiore negli USA rispetto agli altri continenti. La PCOS ha solitamente un esordio precoce, generalmente nel periodo prepuberale con
un’alta incidenza di disordini endocrinologici che prevalgono sugli aspetti metabolici. Con gli anni aumentano i segni clinici: l’entità dei disturbi endocrinologici e metabolici aumenta fino alla menopausa, momento della vita in diventano prevalenti i disturbi metabolici.
Le pazienti affette da PCOS mostrano sintomi diversi che includono: aspetti psicologici (bassa autostima, depressione, ansia) problemi riproduttivi (irregolarità mestruali, infertilità, complicazioni in gravidanza) e metabolici (insulino resistenza, sindrome metabolica, alterata tolleranza al glucosio, diabete di tipo 2) e malattie cardiovascolari.
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Kim Hahn and the editors of Conceive Magazine – Immagine tratta da @LaMujerLunar
di Dottoressa Deborah Tognozzi
Fonte Il Caduceo Rivista periodica di aggiornamento scientifico e cultura medica
Vol. 23, n.° 2 – 2021 Pag. 20 Link alla fonte in formato PDF
Uno dei più rivoluzionari concetti degli ultimi decenni è l’interpretazione della PCOS come disordine non esclusivamente riproduttivo ma sistemico, con importanti
implicazioni metaboliche Studi prospettici e randomizzati, infatti, hanno evidenziato, nelle pazienti con PCOS, un aumentato rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2, dislipidemie, tumori e malattie cardiovascolari.
I fattori di rischio cardiovascolari nella sindrome dell'ovaio policistico sono:
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Il riconoscimento della patologia e l'evoluzione nei criteri per la diagnosi
La prima descrizione della PCOS fu fatta nel 1935 da Stein e Leventhal, che delinearono la classica triade sintomatologica: oligo-amenorrea; irsutismo; sterilità.
Nel 1990 i National Institutes of Health (NIH) identificarono come criteri fondamentali, per la diagnosi, la presenza di:
• anovulazione cronica;
• iperandrogenismo clinico e/o biochimico;
• esclusione di altre cause di iperandrogenismo: iperplasia surrenale congenita, iperprolattinemia, disfunzioni tiroidee, tumori secernenti androgeni.
Il criterio morfologico ecografico non era stato incluso nella diagnosi perché giudicato aspecifico e incostante. Per quanto non abbiano trovato unanime consenso, soprattutto a causa della “clamorosa” esclusione di riferimenti alla policistosi ovarica, i criteri NIH hanno rappresentato il primo passo verso la standardizzazione di una sindrome complessa e l’attuazione di sperimentazioni cliniche con più rigidi punti di riferimento. Si può affermare che la sindrome dell’ovaio policistico sia caratterizzata da una notevole eterogenicità di manifestazioni cliniche.
Attualmente la diagnosi della PCOS si basa sui criteri stabiliti nel 2003 al Rotterdam ESHRE (European Society of Human Reproduction and Embryology)/ ASRM (American Society or Reproductive Medicine) PCOS Consensus Workshop Group che ha
proposto una revisione dei criteri diagnostici, definendo PCOS la presenza di almeno due dei seguenticriteri: oligo-anovulazione cronica, iperandrogenismo clinico (acne, seborrea, alopecia, irsutismo) e/o biochimico (aumento degli ormoni
circolanti); policistosi ovarica all’ecografia.
In base a tali criteri, i possibili fenotipi sono tre :
1. Iperandrogenismo clinico e/o biochimico ed oligoanovulazione cronica, con o senza policistosiovarica (PCOS “classica”o“PCOS NIH”);
2. Iperandrogenismo clinico e/o biochimico e policistosi ovarica, con cicli ovulatori (PCOS “ovulatoria”od“ovulatory PCOS”);
3. Anovulazione cronica e policistosi ovarica, con assenza di iperandrogenismo clinico e /o biochimico.
Va precisato che il criterio morfologico ecografico proposto per la prima volta a Rotterdam non è considerato, ad oggi, indispensabile per la diagnosi, né è tantomeno sufficiente, dal momento che il riscontro di ovaie policistiche, indipendentemente dalla PCOS, si ha nel 20% delle donne normali e in un’ampia fetta di donne con patologie diverse, come l’iperplasia surrenale congenita o l’irsutismo idiopatico.
Se ne conclude che donne che presentino solo riscontro ecografico di policistosi ovarica non andrebbero considerate affette da PCOS, fino a che non si manifestino completamente le evidenze cliniche della sindrome.
Secondo l’Androgen Excess Society (AES, 2006), che considera la PCOS come un disordine prevalentemente iperandrogenico, la diagnosi può essere formulata laddove siano verificati tutti i seguenti criteri:
• iperandrogenismo: irsutismo e/o iperandrogenemia;
• disfunzione ovarica: oligo-anovulazione e/o ovaie
policistiche;
• esclusione di altre cause di eccesso androgenico o
disordini collegati.
Tali criteri sono complessivamente sovrapponibili a quelli di Rotterdam, dai quali si differenziano solamente per l’esclusione del fenotipo“policistosi più oligomenorrea”, ritenuto dai più non classificabile come PCOS.
I criteri diagnostici non prendono in considerazione l’insulino-resistenza (IR) un aspetto molto importante della PCOS e che si è visto essere legato all’iperinsulinismo.
L’obesità era nell’originale Sindrome di Stein-Leventhal un criterio irrinunciabile di diagnosi. I criteri NIH e Rotterdam 2003 non tengono invece in considerazione questo segno clinico. Infatti, sebbene l’obesità sia frequentemente associata alla sindrome, è presente solo nel 50% dei casi quindi non è di per sé patognomica della PCOS
La Manifestazione clinica della PCOS
La manifestazione clinica della PCOS è il risultato di una complessa serie di alterazioni di meccanismi fisiologici, per cui non sempre si assiste ad una piena espressione di questa sindrome. La PCOS, solitamente, si manifesta in epoca puberale con disordini mestruali, irsutismo e obesità. Accanto ai disturbi endocrini vi sono anche dei disturbi metabolici che però
diventano via via più importanti con il progredire del tempo fino a divenire predominanti dopo la menopausa. I disturbi endocrinologici più frequenti comprendono la classica triade:
1. irregolarità mestruali (80%) (oligomenorrea, amenorrea, metrorragie, infertilità);
2. iperandrogenismo (60%) (irsutismo, acne, alopecia);
3. obesità (50%).
I disturbi metabolici più frequenti, invece, sono intolleranza glucidica, diabete mellito, dislipidemie, difetti fibrinolitici con iperfibrinogemia e un maggior rischio cardiovascolare, ipertensione. Le irregolarità mestruali compaiono in età puberale, con cicli mestruali
che si distanziano sempre di più l’uno dall’altro fino a sfociare nell’amenorrea permanente.
L’iperandrogenismo, invece, si manifesta prevalentemente con irsutismo. L’anomala presenza di pelo terminale riguarda prevalentemente il labbro superiore, il mento, il solco intermammario, gli avambracci, la linea alba, le cosce e le gambe. Va segnalato, però, che
non sempre l’iperandrogenismo va di pari passo con l’irsutismo. Frequente, anche, il riscontro di seborrea ed acne.
L’iperandrogenismo, infatti, causa delle modificazioni della composizione del sebo ghiandolare che conducono a ipercheratosi del dotto escretore con fenomeni di congestione delsebo all’interno del dotto stesso.
Il risultato è la formazione di comedoni.
Un sintomo più raro dell’iperandrogenismo è l’alopecia. Il meccanismo fisiopatogenetico è simile a quellodell’alopecia androgenetica maschile; si assiste, cioè, ad un assottigliamento del diametro del capello con atrofizzazione del follicolo pilifero.
L’obesità, invece, è presente nel 50% delle donne con PCOS ed è spesso associata ad uno stato di iperinsulinismo legato, a sua volta, all’insulino-resistenza. Quest’ultima dà un contributo importante nel determinare l’iperandrogenismo come precedentemente spiegato.
L’insulino-resistenza, infatti, è presente ed ha un ruolo fondamentale nella genesi della sindrome nel 33% delle donne magre con PCOS. Nel restante 66% di donne magre l’insulino-resistenza è assente e pertanto gioca un ruolo minimo nella genesi dell’iperandrogenismo che, quindi, è da ricondursi più probabilmente agli altri meccanismi patogenetici precedentemente descritti.
I disturbi metabolici più frequenti sono quelli classicamente legati all’insulino-resistenza e solitamente diventano predominanti con l’avanzare dell’età. Di frequente riscontro sono: alterazioni del profilo lipidico (con aumento dei trigliceridi e riduzione del colesterolo HDL), ridotta tolleranza glucidica “diabete mellito”di tipo 2 (celebre l’espressione “diabete della
donna barbuta”), iperfibrinogemia e difetti fibrinolitici, ipertensione arteriosa. Tutte queste alterazioni metaboliche sono alla base dell’aumentato rischio cardiovascolare delle donne affette da PCOS. Ma poiché queste alterazioni metaboliche nelle giovani donne
sono molto sfumate e si fanno evidenti solo dopo la menopausa spesso vengono sottovalutate. È ancora dibattuto se un trattamento precoce delle alterazioni metaboliche sia opportuno o meno, ma quello che appare oramai certo è la PCOS è una patologia endocrino-metabolica e pertanto la valutazione di queste pazienti non può esaurirsi negli aspetti strettamente endocrinologici e riproduttivi ma deve coinvolgere
anche alcuni parametri metabolici.
La diagnosi di PCOS
La diagnosi di PCOS è di esclusione, essendo questa definita come una condizione di iperandrogenismo
(documentato clinicamente o biochimicamente) e anovulazione cronica, in assenza di altre patologie che possano essere responsabili di tali manifestazioni. Sono di frequente riscontro valori elevati di androgeni; possono riscontrarsi, infatti, alti valori di androgeni prodotti a livello ovarico (testosterone libero, DHT) e a livello surrenalico (Δ4-androstenedione, DHEA-S). Va ricordato, però, che solo il 50% delle pazienti con PCOS ha elevati valori di androgeni surrenalici. Anche i livelli di 17OH-Progesterone possono risultare elevati; quest’ultimo è di provenienza prevalentemente ovarica e non mostra, infatti, la classica sopprimibilità al desametazone e la stimolabilità all’ACTH tipica del deficit di 21-idrossilasi a comparsa
tardiva (late onset); è presente, invece, una spiccata iper-risposta del 17OH-P al test di stimolo con analoghi del GnRH con picco dopo 20 ore dall’iniezione
dello stimolo. Si riscontrano spesso bassi valori di SHBG.
In condizioni fisiologiche durante la fase follicolare il rapporto LH/FSH è all’incirca pari a 1. Pertanto può essere utile, ai fini diagnostici, il riscontro di un rapporto LH/FSH >2 e una conservata responsività, se non addirittura una iper-risposta, dell’LH al GnRH. Anche il rapporto E1/E2 a favore dell’estrone può essere utile per la diagnosi. In alcuni casi è possibile il riscontro di valori elevati di PRL.
L’ecografia pelvica, invece, solitamente mostra un ovaio di dimensioni aumentate con presenza di numerose cisti ovariche in diverse stadi di maturazione
(micropolicistosi). I reperti di questa indagine, però, vanno presi con cautela, sia perché possono esser riscontrati anche al di fuori della sindrome dell’ovaio policistico, sia perché il loro riscontro non implica necessariamente la
presenza di una PCOS.
L'approccio terapeutico
L’approccio terapeutico corrente prevede la correzione sintomatica del disturbo per cui la paziente si reca dal medico. La terapia, quindi, può essere volta alla correzione dell’irsutismo, alla regolazione dei cicli mestruali e all’induzione dell’ovulazione nelle pazienti che vogliono ottenere una gravidanza. Un nuovo approccio terapeutico prevede anche il trattamento dell’insulino-resistenza.
Il trattamento va effettuato a due livelli. Il primo livello è quello preventivo; il secondo è quello terapeutico vero e proprio. La prevenzione va effettuata soprattutto nelle donne che hanno dei fattori di rischio per lo sviluppo PCOS, ovvero la presenza di una ipertricosi prepuberale e/o un pubarca precoce, e il soprappeso in ragazze che riferiscono un basso peso alla nascita.
In questi casi l’attività preventiva consiste nel ridurre l’introito calorico e nell’aumentare l’attività fisica. Una dieta povera di grassi va proposta anche a quelle ragazze che, pur non essendo in sovrappeso, hanno una familiarità per PCOS.
La terapia non è solo farmacologia. È utile un calo ponderale, che deve essere effettuato molto lentamente (0,5 Kg la settimana) per evitare che la paziente riacquisti il peso perduto.
La dieta ipocalorica determina una riduzione dell’iperinsulinemia e del testosterone ed un aumento della SHBG con regolarizzazione dei cicli nel 40-50%
dei casi. La ripresa della ciclicità mestruale è più frequente se alla terapia farmacologia si associa anche una buona perdita di peso. La dietoterapia, quindi, deve essere il primo approccio terapeutico nella donna obesa con PCOS. La terapia dell’irsutismo non si discosta da quella consigliata in tutte le altre condizioni che causano iperandrogenismo.
Per la terapia dell’iperandrogenismo, pertanto, si rimanda alla trattazione dell’irsutismo. Se l’obbiettivo principale da raggiungere è la regolarizzazione del ciclo mestruale la terapia consiste nell’assunzione di ”estroprogestinici” (EP). Questo consente una regolarizzazione del ciclo che è, però, puramente cosmetica e i benefici per la paziente sono esclusivamente psicologici. Si tratta, quindi, di una terapia sintomatica che dopo la sospensione comporta la ripresa della sintomatologia. D. Tognozzi, P. D’Alessio In alcuni casi, anzi, dopo la sospensione, è riportato addirittura un peggioramento del quadro metabolico probabilmente dovuto al fatto che gli estrogeni determinano un aumento dei livelli di insulina.
Comunque, attualmente, la terapia EP utilizzata prevede l’associazione di estrogeni con un progestinico che abbia
anche caratteristiche antiandrogene in modo da ottenere il duplice effetto di regolarizzare il ciclo e di ridurre i segni dell’iperandrogenismo. Questa modalità terapeutica viene preferita anche se il trattamento dell’irsutismo non è l’obiettivo primario. Una nuova
prospettiva terapeutica è fornita dal alcuni ipoglicemizzanti orali che interverrebbero positivamente, interrompendo le connessioni patogenetiche tra l’iperinsulinemia e le alterazioni ormonali e metaboliche che si riscontrano nella PCOS. I dati attualmente in letteratura sono contrastanti. La metformina sembra aumentare, in tempi brevi e indipendentemente dalla perdita di peso, la frequenza delle ovulazioni spontanee e delle ovulazioni indotte dal clomifene. La metformina, al dosaggio di 500 mg x 3 volte al dì (oppure 850 mg x 2 volte al dì) riduce la resistenza insulinica e migliora i parametri metabolici alterati (iperuricemia, ipercolesterolemia, iperfibrinogenemia). Si riducono, inoltre, anche i livelli di testosterone, soprattutto
quello libero. Va ricordato, però, che la risposta a questo trattamento non avviene in tutte le pazienti, infatti, in alcune casistiche è riportata una percentuale di responders pari al 55%. Però, ben nell’80% delle pazienti responsive si sono ottenuti subito dei cicli ovulatori. I risultati sono più brillanti nelle donne in soprappeso e la probabilità di rispondere al trattamento è tanto maggiore quanto più alta è l’insulinemia, più bassi i livelli di androstenedione e più numerose le alterazioni del ciclo. I glitazoni, invece, non ancora in commercio in Italia, in unica dose giornaliera (400-
600 mg) agiscono riducendo l’insulino-resistenza e riducendo i valori plasmatici di insulina e migliorano notevolmente la secrezione di androgeni da parte
dell’ovaio.
Va ricordato, infine, che l’esperienza con
questi farmaci, non è molta e che i dati attuali sono
spesso contrastanti; pertanto altri studi saranno necessari per accertare definitivamente l’efficacia di questi ipoglicemizzanti orali nella terapia della PCOS.
Nel caso si voglia ottenere una gravidanza è necessario indurre un’ovulazione. Dei cicli ovulatori si ottengono,solitamente, dopo la correzione delsovrappeso o immediatamente dopo la sospensione degli estroprogestinici. Qualora questo non avvenisse, l’ovulazione deve essere indotta farmacologicamente.
Il clomifene è uno dei farmaci che viene normalmente utilizzato a questo scopo. Il clomifene citrato è un estrogeno debole che si comporta anche da antiestrogeno. È disponibile sotto forma di due isomeri, trans e cis. La forma trans (enclomifene) e la forma cis (zuclomifene)sono presenti nei preparati commerciali nelle percentuali di 62 e 38% . Le due isoforme hanno dei profili farmacocinetici differenti; l’isomero (zu) è presente in circolo anche dopo un mese dalla somministrazione, mentre l’isomero (en), al contrario, non è più dosabile dopo 24 ore dalla somministrazione.
L’isomero trans, però, è responsabile, quasi interamente, della capacità da parte del farmaco di indurre l’ovulazione.Il meccanismo d’azione è incerto. È probabile che il farmaco interagisca con i recettori estrogenici ipotalamici, spiazzando l’estradiolo endogeno e creando data la sua attività biologica pressoché assente in questo distretto, una condizione artificiosa di ipoestrogenismo. I centri ipotalamici responsabili della liberazione del GnRH vengono in tal modo stimolati ad una maggior attività. Dopo la somministrazione di clomifene, infatti, la frequenza della secrezione pulsatile di LH e FSH è aumentata, mentre ne rimane invariata l’ampiezza. Condizione necessaria per l’efficacia del farmaco è la presenza di adeguati livelli di
estrogeni. Il clomifene, pertanto, non ha nessun effetto in tutte le condizioni in cui la produzione estrogenica sia insufficiente. È indispensabile, inoltre, che l’intero asse ipotalamo-ipofisi-ovaio sia integro e funzionalmente idoneo a rispondere al farmaco. Quindi deve esser presente una normale produzione ipotalamica di GnRH, una risposta ipofisaria in FSH e LH ed una adeguata risposta ovarica in termini di follicologenesi
e steroidogenesi. Si somministrano 50 mg/die per 5 giorni (dal 2º al 5º giorno della comparsa della mestruazione). Se la paziente è in amenorrea, è preferibile indurre un sanguinamento simil-mestruale mediante la somministrazione di un progestinico (ad es. 10 mg/die di medrossiprogesterone acetato o di didrogesterone per os per 7 giorni). Lo sfaldamento endometriale così ottenuto favorisce il sincrono sviluppo della mucosa uterina durante l’induzione dell’ovulazione.
In caso di risposta ovulatoria (nel 50% dei casi) si continua con lo stesso dosaggio sino al conseguimentodella gravidanza e, comunque, non oltre 6-8 cicli.
Qualora la dose iniziale non sia sufficiente in termini di ovulazione si può aumentare di altri 50 mg/die nel ciclo successivo, tenendo presente che le pazienti non responsive a dosaggi di 150 mg/die difficilmente rispondono a dosaggi maggiori. In caso di ottenimento di gravidanza va segnalato un tasso di gemellarità (eterozigote) del 7%. L’induzione dell’ovulazione con clomifene si fonda sul potenziamento di meccanismi fisiologici preesistenti per cui la possibilità di una eccessiva e incongrua stimolazione delle ovaie è molto rara.
L’ovulazione nella PCOS viene indotta nell’80% dei casi, mentre la gravidanza si realizza in un 20% dei casi. La discrepanza tra gli effetti potrebbe essere imputata all’azione antiestrogena, che potrebbe alterare il muco cervicale e quindi la progressione degli spermatozooi. Per evitare tali inconvenienti si suggerisce di utilizzare dell’etinil- estradiolo al dosaggio di 10μg/die intorno al periodo ovulatorio. Qualora, dopo il passaggio a dosaggi maggiori, la risposta ovulatoria manchi è opportuno passare all’induzione mediante gonadotropine. L’associazione con desametazone (0,5-1 mg/die) incrementa le possibilità di successo del clomifene nelle pazienti con concomitante iperandrogenismo surrenalico.
Tra gli effetti collaterali del clomifene ricordiamo le vampate, come le donne in menopausa (11%), disturbi visivi –scotomi (2%); la presenza di quest’ultimi impone la sospensione del trattamento. L’induzione dell’ovulazione, inoltre, può essere effettuata tramite la somministrazione di gonadotropine. Le gonadotropine utilizzate sono ottenute dalle urine di donne in post menopausa (menotropine). Ultimamente sono state introdotte gonadotropine ottenute con tecnica biosintetica da DNA ricombinante. Allo stato attuale sono disponibili solo preparati contenenti FSH ottenuti con tale metodica, ma è prevista in tempi brevi, anche l’introduzione dell’LH e della gonadotropina corionica (hCG). Lo scopo della terapia con gonadotropine, o per meglio dire con FSH, è agire sui follicoli nell’ultima fase del loro iter maturativo che, in condizioni fisiologiche, è limitata alle prime due settimane del ciclo mestruale nel quale avverrà l’ovulazione. L’FSH agisce sulle cellule della granulosa inducendone la proliferazione e stimolando la conversione, aromatasi dipendente, degli androgeni in estrogeni.
L’obbiettivo è la monoovulazione. L’impiego di dosi maggiori di FSH, forzando i meccanismi fisiologici di retrocontrollo, porta a fenomeni di superovulazione (metodo utilizzato nelle tecniche di riproduzione assistita). La risposta biologica all’FSH esogeno è ariabile
da donna a donna e pertanto non è possibile utilizzare l’FSH secondo schemi posologici prestabiliti. È necessario somministrare la dose giusta per ottenere
una monoovulazione,senza correre il rischio di ovulazioni multiple o della sindrome da iperstimolazione.
Pertanto è necessario monitorare strettamente la risposta biologica attraverso l’esecuzione di ecografie e del dosaggio del 17β-estradiolo. La sindrome da iperstimolazione ovarica è una condizione caratterizzata da aumentata permeabilità vascolare, con trasferimento dei fluidi al compartimento extracellulare, con conseguente ipovolemia ed emoconcentrazione e contemporaneamente versamenti ascitici, pleurici e pericardici.
Anche in questo caso è preferibile indurre una mestruazione con un progestinico o con l’estroprogestinico (nelle pazienti particolarmente ipoestrogeniche che non rispondono al solo progestinico). Poi si somministrano 50-75 mUI/die per 5-7 giorni e si procede alla quantificazione della risposta: il dosaggio rimarrà inalterato in caso di discreta crescita follicolare e di buoni livelli estrogenici. Quando la risposta viene valutata insufficiente il dosaggio può essere incremento secondo il protocollo a basse dosi (non più di mezza fiala per volta, 25-37,5 mUI) ad intervalli di una settimana. L’ovulazione poi, viene indotta dalla somministrazione di 5-10000 UI di hCG in presenza di un follicolo di almeno 16 mm di diametro e di livelli di 17βestradiolo di 200-300 pg/ml.
Per evitare l’insorgenza di una sindrome da iperstimolazione ovarica è sufficiente, in presenza di più di tre follicoli > 16 mm o livelli di estrogeni > 300 pg/ml, astenersi dalla somministrazione di hCG.
Con questa tecnica si ottengono un 70-80% di cicli ovulatori con un 25% di gravidanze per ciclo ovulatorio. Le percentuali di successo, però, diminuiscono
notevolmente nelle pazienti affette da policistosi ovarica (50-60% di cicli ovulatori con un 8% di gravidanze). Il rischio di gravidanza multipla è molto elevato.
La tecnica del GnRH pulsatile è molto complessa e prevede l’utilizzo di microinfusori con cui si somministra GnRH alla dose di 5 mg e.v. ogni 60-90 minuti.
Una volta ottenuta l’ovulazione si rimuove il microinfusore e la funzione luteinica va mantenuta somministrando 1000-2000 UI di hCG ogni terzo giorno per tre volte. I risultatsono lusinghieri (90% di cicli ovulatori) soprattutto nei casi amenorrea ipogonadotropa.
Per la PCOS non è indicato alcun intervento chirurgico; la resezione cuneiforme, molto applicata in passato, è oramai effettuata raramente e va riservata a casispecifici
L’importanza della modifica dello stile di vita
La PCOS è una endocrinopatia complessa, che necessita di un corretto approccio diagnostico e di una terapia individuale a lungo termine. L’eterogeneità dei sintomi, l’irregolarità dei cicli mestruali, l’acne, l’irsutismo, le difficoltà di concepimento, le possibili complicanze metaboliche a lungo termine possono essere, soprattutto nelle giovani pazienti, causa di stress emotivi che possono incidere negativamente sulle attività quotidiane, lavorative e sociali, causando una significativa riduzione della “qualità di vita”. La PCOS non solo è una tra le causa principali di infertilità e irsutismo ma è considerata una vera e propria sindrome metabolica. Nelle pazienti con PCOS può essere presente una sindrome plurimetabolica con obesità, insulino resistenza, dislipidemia e complicanze metaboliche. Il rischio disviluppo diabete per le donne con PCOS aumenta da 3 a 7 volte rispetto alla popolazione generale.
La modificazione dello stile di vita rappresenta il trattamento di prima linea per la gestione delle pazienti con PCOS. In considerazione dell’aumentato rischio di sviluppo del diabete di tipo 2 , determinato soprattutto dalla presenza di sovrappeso o obesità e iperinsulinemia, il calo ponderale deve essere considerato l’approccio terapeutico iniziale e indispensabile soprattutto per le pazienti con maggior peso. Per le pazienti normopeso è indispensabile mantenere un giusto sistema nutrizionale. Una dieta ricca di grassi, soprattutto acidi grassi saturi e di zuccheri a rapido assorbimento favorisce l’obesità.
Fondamentale è l’esercizio fisico che deve essere praticato con regolarità e costanza.
PCOS sovrappeso e obesità
La PCOS è una delle condizioni che più frequentemente si associano all’obesità e al sovrappeso nel sesso femminile. Circa il 25-50 % delle pazienti con PCOS presentano un sovrappeso o una vera obesità, in particolare con fenotipo addominale. Il restante 50% delle pazienti con PCOS è normopeso. Il peso corretto nell’adulto dipende dall’altezza, per questo si calcola il cosiddetto Indice di Massa Corporea.
IMC o Body MassIndex, BMI) definito come il rapporto tra il peso in kilogrammi e l’altezza in metri elevata al quadrato (kg/m2). In base al valore ottenuto si può collocare all’interno di una delle classi sottostanti; in questo modo sapremo si può avere una definizione dell’indice di massa corporea
La dieta corretta per le donne con PCOS
Non è sufficiente una modesta restrizione calorica associata ad una moderata attività fisica per gestire l’obesità delle donne con PCOS, ma è importante attuare una modificazione dei rapporti tra macronutrienti con un aumento dell’apporto proteico ed una riduzione o modifica dei tipi di carboidrati assunti.
Incrementare la percentuale di proteine in modo moderato migliora la sensazione di sazietà, aumenta la termogenesi post-prandiale ed il consumo energetico inoltre aiuta a preservare la massa magra. Ci sono studi che mostrano che una dieta ad alto contenuto proteico apporta benefici nella riduzione del glucosio post-prandiale, nella riduzione dell’LDL e nel decremento del glucosio post-prandiale. L’aspetto negativo di questo approccio dietetico è il basso grado di sostenibilità e la scarsa compliance data dalla difficoltà a mantenere la perdita di peso nel lungo periodo
(12-36 mesi).
Studi dimostrano invece come la variazione della tipologia dei carboidrati scelti nel piano dietetico in relazione al loro indice glicemico (IG) e/o carico glicemico (CG) possa ridurre il rischio cardiovascolare, garantire il mantenimento della perdita di peso anche nel lungo periodo oltre ad aumentare l’effetto saziante percepito dalle pazienti. L’indice glicemico misura la capacità di un certo zucchero di alzare la glicemia dopo il pasto rispetto ad uno zucchero di riferimento (il glucosio puro). Fu Jenkins che nel 1981 mise a punto gli indici glicemici sulla base dei lavori realizzati dal 1976 da Crapo. L’indice glicemico misura quindi il potere glicemizzante di un glucide, ossia la sua capacità di liberare una certa quantità di glucosio dopo la digestione. Si può dire allora che l’indice glicemico misura effettivamente la biodisponibilità di un glucide, che corrisponde alla sua percentuale di assorbimento
intestinale. Se l’indice glicemico è alto (per esempio nel caso della patata) la percentuale di assorbimento del glucide corrispondente provocherà una risposta glicemica alta. Se al contrario l’indice glicemico è basso (per esempio nel caso delle lenticchie) la percentuale di assorbimento del glucide corrispondente provocherà una risposta glicemica bassa se non addirittura insignificante. Così, rispetto all’indice di riferimento 100 del glucosio, le patatine fritte hanno un indice glicemico (IG) di 95 mentre l’IG delle lenticchie verdi è 25.
È importante comunque sapere che l’indice glicemico di un glucide non è fisso, Può variare, infatti, in funzione di un certo numero di parametri quali l’origine botanica o la varietà per un cereale, il grado di maturazione per un frutto, il trattamento termico, l’idratazione, ecc.
Il carico glicemico è invece un concetto sviluppato in seguito, che riflette meglio la risposta glicemica nel
sangue e la richiesta di insulina di un alimento , tenendo conto della quantità di carboidrati solitamente consumato, in aggiunta al suo valore IG.
Le pazienti con PCOS mostrano una importante iperinsulinemia compensatoria quindi potrebbero esserci vantaggi nel seguire un regime dietetico a basso IG e CG. Risulta quindi utile limitare il consumo degli zuccheri semplici e fare attenzione all’IG degli alimenti. Questo non vuol dire che gli zuccheri debbano essere eliminati, tuttavia andrebbero consumati in quantità controllate e soprattutto cercando di evitare di consumarli da soli, inserendoli in pasti che comprendano alimenti che ne modulino l’assorbimento e ne riducano l’indice glicemico. È indispensabile ridurre il consumo di grassi saturi e di colesterolo soprattutto nelle pazienti androgenizzate. L’eccesso di grassi è in grado di influire negativamente sul metabolismo
glucidico, infatti è stato più volte dimostrato che una dieta con alto carico di grassi saturi è associata ad una ridotta sensibilità insulinica.
Quindi è importante seguire alcune regole:
• Consumare cereali e derivati (farina, pane, fette biscottate, grissini, crackers, pasta, riso…) preferibilmente in forma integrale;
• consumare cereali “alternati-vi” come farro, orzo, quinoa, etc…
• consumare cereali antichi
• consumare carboidrati a basso indice glicemico e carico glicemico
• Prediligere le cotture “al dente” e i formati di pasta
lunga (spaghetti, linguine…);
• Aumentare il consumo dei legumi come alternativa
ad altri secondi piatti, abbinandoli eventualmente
ai cereali integrali creando dei piatti unici;
• Consumare sempre una porzione di verdura (ad
esclusione di alcune tipologie) all’interno del pasto;
• Limitare il consumo di patate e preferire quelle novelle, cotte con la buccia e associate ad una porzione di verdura;
• Evitare le carote cotte
• Evitare di consumare troppa frutta, attenendosi alle 2 porzioni giornaliere, preferibilmente consumandola a termine pasto o in associazione a carboidrati complessi e con fibra (es. crackers integrali);
• Evitare i dolci contenenti zuccheri facilmente disponibili (caramelle, torte, creme e confetture, biscotti, bibite gasate, succhi di frutta…)
• Limitare l’assunzione di grassi scegliendo quelli di qualità
• Consumare carni magre e preferibilmente bianche
• Evitare il consumo di carni processate
• Moderare la quantità di grassi ed oli usati per condire e cucinare prediligendo il consumo a crudo di oli extravergine d’oliva o di semi (arachide, mais, girasole).
• Prediligere cotture al cartoccio, al vapore, al forno o al microonde evitando le fritture; utilizzare per le cotture i condimenti che possiedono un più elevato punto di fumo (olio extravergine d’oliva, olio di arachide) evitando il riutilizzo di olio già usato in precedenza.
• Evitare il consumo di grassi da condimento come burro, lardo, strutto, panna, ricordando che spesso sono presenti anche in prodotti da forno o altri prodotti pronti (gelati, creme, salse…).
• Fra le carni preferire quelle magre bianche (pollo, tacchino, coniglio) e limitare quelle rosse (maiale, vitello o manzo) ad una volta a settimana eliminando il grasso visibile;
• Fra i pesci preferire il pesce azzurro (alici, nasello, merluzzo, orata, sogliola) ma anche trote e quelli ad elevato contenuto di omega tre (salmone, sgombro, tonno,) limitando il consumo di crostacei e molluschi, ricchi di colesterolo.
• Scegliere preferibilmente latte e derivati nelle varianti parzialmente scremate e tra i formaggi scegliere quelli freschi (mozzarella, ricotta, formaggi di
capra, scamorza, etc.) o del grana o parmigiano limitando le porzioni e la frequenza settimanale con cui vengono consumati (g 60-100, un paio di volte alla
settimana), avendo cura di utilizzarli come secondo piatto e non in aggiunta ad un pasto già di per sé
completo.
• Ridurre il consumo di sale in quanto un consumo eccessivo può favorire l’instaurarsi di ipertensione arteriosa, soprattutto nelle persone predisposte che
a sua volta può indurre danni a livello cardiaco, vascolare e renale. L’eccesso di sodio sembra inoltre predisporre ad un aumento del rischio di tumori
dello stomaco e, inducendo maggiori perdite urinarie di calcio, probabilmente ad un maggiore rischio di osteoporosi.
Conclusioni
La sindrome dell’ovaio policistico (Polycystic Ovary Syndrome, PCOS) è un’endocrinopatia comune che interessa il 4-12% delle donne in età riproduttiva. Abbiamo visto che le caratteristiche della PCOS possono essere sintetizzate in:
• iperandrogenismo
• oligo-anovularità
• policistosi ovarica
a cui si associa un quadro metabolico caratteristico di iperinsulinemia e insulinoresistenza, con una distribuzione del grasso a livello addominale a cui è associata solitamente obesità o sovrappeso.
Non esistono ancora linee guida in merito alla dieta ideale per le pazienti con PCOS ma ci sono dati interessanti per sostenere l’importanza del trattamento dietetico-nutrizionale nel miglioramento del quadro di insulino resistenza e androgenismo. Il piano dietetico deve essere soprattutto finalizzato alla riduzione del carico lipidico con particolare contenimento del consumo di grassi saturi e colesterolo ed alla corretta scelta di alimenti a basso indice glicemico che possano assicurare un basso carico glicemico giornaliero.
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